Premetto che non sono un economista ma un imprenditore. Quello che scrivo è ciò che penso alla luce delle informazioni che raccolgo ed
elaboro a mio uso e consumo.
La Cina viene indicata come la grande economia trainante di questo periodo e come il modello socio economico che sembra in grado di
cavalcare e domare la crisi che attanaglia il cosiddetto "mondo occidentale" o "mondo sviluppato".
Ma è veramente così?
A occhio le cose quadrano: la loro crescita è robusta, il loro modello di capitalismo governato dallo stato pare permettere quel
decisionismo che manca alle democrazie occidentali, hanno liquidità da investire (anche all'estero).
Ma non è tutto oro quello che luccica sebbene nei loro forzieri ve ne sia molto di quello vero.
La prima cosa da notare è che siamo stati abituati a giudicare la dimensione dell'economia di un paese in termini di variazione del suo PIL (o GDP),
perdendone però di vista il valore assoluto. Il +8% di crescita del PIL cinese messo a confronto con il +prefisso telefonico nostro è sicuramente
impressionante ma se qualcuno vi dicesse che il PIL cinese, in valore assoluto, è solo poco più del doppio di quello italiano come vi sentireste?
(badate che non sto sottovalutando l'importanza della crescita del PIL, anzi)
Eppure è proprio così: la Cina è un immenso paese, 25 volte l'Italia (come popolazione) ma ha un PIL che è solo poco più del doppio
del nostro (e un terzo di quello degli USA)
cosa che si riflette sul PIL pro capite, che è 10 volte meno del nostro
Se poi consideriamo che la ricchezza è distribuita in modo molto meno equo di quanto sia da noi, l'immagine che ne traiamo è quella di
un paese in cui, a fronte di una minoranza (molto minoranza) che vive grossomodo sui livelli nostri, vi è una immensa parte del paese che
vive nella miseria più assoluta. Quantomeno con il metro nostro (e, probabilmente, anche con il loro). E la cosa non sta migliorando, come
potrebbe sembrare, ma peggiorando: il World Bank's Gini coefficient (il più usato indicatore di distribuzione della ricchezza) è passato da
un valore di 0.28 negli anni '70 all'attuale 0.47 (occhio che 0 significa equidistribuzione, 1 totale asimmetria).
I beneficiari di tale asimmetria sono una elite di imprenditori-politici (con il trattino a significare che coprono entrmbi i ruoli) favoriti
dal sistema fiscale cinese che convoglia più dell'80% degli stimoli all'economia nelle aziende e nelle attività più direttamente sotto il
controllo dello stato. Non ci sarebbe nulla di male in questo se non fosse che, però, queste realtà pur controllando il 60% delle risorse
economiche del paese contribuiscono solo per il 30% al PIL e, soprattutto, danno lavoro a meno del 20% della forza lavoro totale.
Il secondo aspetto da notare è che la crescita cinese è trainata dal manifatturiero. Ma di cosa si tratta, in realtà? Si tratta di prodotti che
vengono esportati quasi totalmente per soddisfare il mercato estero che li commissiona. Di fatto la Cina è un paese produttore di beni destinati
al consumatore straniero e, in questo, ne è pressoché totalmente dipendente.
D'altro canto il mercato interno cinese è pessimo. Non arriva a coprire il 36% del PIL, ben al di sotto non solo della media mondiale ma anche
di quella di molti paesi a bassissimo reddito. Non è un caso che l'obiettivo principe che il governo cinese si è posto per il 12-esimo piano
quinquennale sia di incrementare i consumi domestici.
Ma non sarà facile.
Innanzitutto la Cina sta vivendo un periodo di forte inflazione. L'aumento di prezzo dei beni essenziali (il cibo, sugli altri) e la mancanza di un
welfare state porta il consumatore cinese a limitare la spesa e crearsi dei risparmi come assicurazione per il futuro. Tanto per dare una
idea la spesa per educazione, sanitaria, welfare e supporto all'occupazione è in Cina il 30% delle entrate fiscali contro il 50% e oltre
dei paesi occidentali. Il governo centrale ha puntato quasi tutto sul controllo dell'inflazione incrementando i tassi di interesse più
volte ma senza apparentemente riuscirci. In compenso ha minato le potenzialità dei suoi settori manifatturieri più piccoli che non riescono
più a competere. La lotta all'inflazione, per il governo cinese, è più che un fattore monetario: è una sfida che li porta a dover gestire
un equilibrio tra economia del paese e problemi sociali senza, per questo, minare il loro modello socio/economico. Questo in un periodo
storico in cui la popolazione non ha più la capacità di accettare politiche che prescindano dalla ricchezza individuale perché nell'era
post Deng le ideologie sono state messe al servizio del raggiungimento (anche se solo ipotetico o potenziale) di questa.
I politici stessi non sono più in grado di prendere decisioni prescindendo dall'impatto che queste avranno sulla popolazione. O comunque
non possono permettersi di andare per tentativi contando sulla sottomissione delle masse. Certo, rispetto a come sono abituate le popolazioni
dei paesi democratici siamo ancora lontani anni luce, ma per i decisori cinesi quelcosa è cambiato. Questo ha portato ad una politica tesa
a piccoli aggiustamenti granulari che salvaguardino il paese da grossi scontri in grado di minare la stabilità del PRC, piuttosto che a
grosse manovre potenzialmente in grado di suscitare ondate di scontento. Ovviamente, però, questi aggiustamenti spesso non hanno la forza necessaria
o preventivata.
In secondo luogo occorre capire che un sistema economico non può variare in una sola componente lasciando inalterate le altre: se si vuole
incrementare il mercato interno occorre che gli attori abbiano i soldi per consumare. Ma questo può avvenire solo aumentando gli stipendi,
cosa che riduce la competitività. Di fatto l'obiettivo di creare un mercato interno che sia in grado di rendere la Cina meno dipendente
dal consumatore straniero rischia di ridurre le esportazioni (perché i prodotti costerebbero di più) in un momento in cui queste già si
stanno riducendo a causa della crisi che attanaglia il mondo occidentale.
L'obiettivo di aumentare il reddito pro capite, quindi, non si scontra solo con la necessità di ridurre la ricchezza che attualmente va
ad una più o meno ristretta elite aumentando quella diretta alla popolazione ma con la dura realtà di un paese largamente rurale che,
se vedesse aumentare il suo reddito, per prima cosa comprerebbe cibo e non i beni di cui la Cina è produttrice. In questo fallendo
l'obiettivo di rendere il paese meno dipendente dalla domanda estera.
A proposito del controllo centralizzato che la forma di governo cinese sembrerebbe garantire, occorre dire che non li ha messi al riparo del tutto.
Anche loro hanno alle porte quello che sembra una sorta di riedizione dei mutui subprime USA in salsa manifatturiera. Di fatto il governo
centrale avrebbe lanciato una sorta di audit teso a verificare quante delle nuove aziende a cui aveva prestato soldi per permetterne
l'impianto siano realmente partite e siano in grado di garantire utili tali da ripagare il debito. In pratica c'è il dubbio che, data la
contrazione del mercato occidentale, molti di questi debiti siano inesigibili con le conseguenze del caso. Sembra strano che possa succedere
una cosa simile in Cina ma non dimentichiamoci che la loro struttura è fortemente burocratizzata e non è facile per il governo centrale
avere un quadro esatto di ciò che fanno le realtà locali.
Lo stesso avviene nel mercato immobiliare i cui prezzi stanno andando alle stelle con il governo centrale che cerca di porre rimedio
arrivando fino a imporre vincoli alle transazioni di vendita (o a vietarle del tutto) a seconda che le città coinvolte corrispondano a
criteri particolari. Cosa che, però, ha comportato ulteriori distorsioni al mercato portandolo su un percorso che non è poi diverso da
quello USA o Spagnolo della bolla edilizia.
Fin qui vi ho parlato della situazione cinese. Ma dal punto di vista occidentale, è ancora così appetibile la Cina?
Sicuramente si, ma ad alcune condizioni che hanno direttamente a che fare con la sua competitività.
Prendiamo il caso di un europeo che debba decidere se produrre in Cina o in altro paese. La prima cosa da prendere in considerazione è
che per portare il prodotto dalla Cina all'Europa occorre un mese di nave (non considero produzioni la cui marginalità è tale da
rendere conveniente il trasporto aereo). Questo ha un costo che non è solo quello del trasporto, ampiamente spesabile nel prezzo, ma
nel fatto che occorra prevedere esattamente quanto si intende vendere senza avere la possibilità di integrare all'ultimo momento.
Ovviamente il problema è tanto più sentito quanto più i prodotti hanno vendita stagionalizzata ma, oramai, lo sono quasi tutti, anche
i cibi. Capite che questo espone al rischio di ordinare troppo poco, quindi di restare senza prodotto e perdere clienti (non solo vendite,
il cliente che non trova il prodotto probabilmente non torna più nel negozio nemmeno a comprare altro) oppure ordinare troppo, quindi
avere rimanenze inutili e capitale immobilizzato in prodotti che magari non si venderanno più. E questo è un costo sensibile.
Perdipiù le previsioni di vendita andranno fatte molto in anticipo rispetto al periodo di vendita (almeno il mese di nave più il tempo di
approntamento) il che rende le cose decisamente più difficili (quindi più rischiose, quindi più costose).
Il secondo aspetto è che la competitività cinese si basa soprattutto sul costo della mano d'opera e sulla scalabilità della produzione,
intendendo con quest'ultima la capacità di reagire immediatamente alla richiesta di un incremento di produzione a parità di consegna.
Entrambi questi fattori sono però alla mercé della qualità richiesta. Prodotti con tolleranze richieste non compatibili con lavorazioni
manuali implicano il ricorso a macchinari. Questo riduce la loro competitività perché il vantaggio che hanno nel costo della mano d'opera
si riduce drasticamente se ogni operaio deve essere dotato di un macchinario. E questo nonostante il macchinario prodotto in loco possa
costare meno e ci sia un consistente vantaggio nei costi energetici. Inoltre la necessità di costruire una macchina per operaio riduce
la scalabilità della produzione: se la lavorazione è interamente manuale e il committente richiede un raddoppio della produzione, trovano
immediatamente il doppio del personale (sono un miliardo e mezzo) e soddisfano la richiesta. Se devono costruire una macchina per ognuno
occorrono grossomodo gli stessi tempi nostri.
Un ultimo aspetto fondamentale riguarda il rispetto delle normative: se il prodotto deve rispettare capitolati precisi non possono usare
le scorciatoie che usano nei prodotti non vincolati accedendo a materiali e semilavorati meno costosi. Tralascio la questione ambientale
perché richiederebbe un post apposito... che coinvolgerebbe anche il consumatore occidentale e le sue abitudini d'acquisto.
Bene, alla fine di tutto questo chiudo con la domanda che mi ha fatto qualche giorno fa
Yossarian:
"Ma se i cinesi riescono a far crescere la domanda interna, praticamente siamo fottuti?"
Prima vediamo se ci riescono a parità di condizioni. Poi... fammi indovino e nessuno vincerà più al Superenalotto.